Che cos'è un podcast di successo?
Un articolo di Bloomberg sostiene che da anni negli Usa non nascono podcast di successo. Ma cos'è il successo nel podcasting? E la radio italiana come sta?
Se mi seguite sui social (e in particolare su Instagram e LinkedIn, quelli che uso di più), lo sapete già. Farò parte della giuria de “ilpod”, il primo premio dedicato ai podcast italiani (lo organizzano Andrea Colamedici e Maura Gancitano di Tlon e ne avevo scritto qui) 🥳
Sono molto felice che Andrea e Maura abbiano voluto dare vita a questo progetto, così come sono felice di poter contribuire. Se volete partecipare, potete candidarvi fino al 31 gennaio, da qui.
Una modesta proposta
Un articolo di Lucas Shaw uscito qualche giorno fa su Bloomberg, che avevo citato qui, ha suscitato parecchio interesse nel mondo dei media.
Il titolo, in effetti, è succosissimo: Podcasting Hasn’t Produced A New Hit in Years.
Ci sono diversi modi di affrontare la questione.
Secondo Nick Hilton, per esempio, il problema deriva dalla mancanza di podcaster in grado di catalizzare l’attenzione e creare un’audience (figure come Pablo Trincia e Matteo Caccia, per intenderci). Per dare vita a un podcast di successo - è la tesi di Hilton - bisogna innanzitutto investire sulle persone, scovare talenti con voci distintive e supportarli nella carriera da podcaster.
Come hanno notato molti, innanzitutto bisognerebbe però farsi questa domanda: cosa si intende per “hit”, ossia per “successo”, quando si parla di podcast?
«Il criterio può essere il numero di ascolti, l’engagement, l’impatto culturale o gli effetti positivi sul benessere sociale», scrivono Martin Spinelli e Lance Dann in Podcast. Narrazioni e comunità sonore, edito da minimum fax (un libro fondamentale di cui probabilmente tornerò a parlarvi presto). Per Ashley Carman di Hot Pod/The Verge un podcast di successo è un podcast economicamente sostenibile.
Spinelli e Dann avanzano un’altra ipotesi ancora: «Forse, in una freemium economy (dove l’accesso al prodotto principale è gratuito e i ricavi derivano da una serie di fonti secondarie, ndr), il criterio più rilevante del “successo” di un podcast è la sua sopravvivenza». Sopravvivenza che spesso è assicurata dalla fedeltà degli ascoltatori verso il loro podcaster di riferimento, per tornare al discorso di Nick Hilton. Veleno ha debuttato nell’ottobre 2017. Se ancora oggi ci sono moltissime persone che lo ascoltano è - anche - perché Trincia nel frattempo è diventato un podcaster riconosciuto: la sua firma o la sua voce sono ormai una garanzia di qualità. Chi lo scopre attraverso i suoi podcast più recenti (l’ultimo è Il dito di Dio, su Spotify) va poi a riesumare anche i lavori che ha fatto in passato.
Ma di base il podcast è un mezzo dove vincono la longevità e la costanza. Per quanto belle e appassionanti possano essere le serie con un numero limitato di episodi (come Veleno o Il dito di Dio), per questo motivo sempre più case di produzione e podcaster indipendenti puntano sui podcast daily o weekly. A questo proposito segnalo una ricerca fresca fresca di Firstory, servizio di hosting molto popolare in Asia: quasi la metà dei download dei 10.000 podcast che ha analizzato nel corso di un anno riguarda episodi vecchi.
Ecco perché è sbagliato considerare il pezzo di Shaw come una prova documentata della morte del podcasting (negli Usa, perlomeno). È normale che «nessuno dei 10 podcast più popolari (ossia più ascoltati, ndr) negli Usa l’anno scorso abbia debuttato l’anno scorso». Come ha scritto Dave Jackson, si tratta di pura matematica: «Se stai facendo un buon podcast, i tuoi numeri dovrebbero crescere circa il 3% ogni anno (se non di più) […]. E più longevo è il tuo podcast più grande dovrebbe essere il tuo pubblico».
Concludo con una proposta di Evo Terra che riguarda proprio i numeri dell’audience (e in generale le metriche dei podcast). Perché non renderli pubblici, disponibili a tutti? È una proposta rivoluzionaria nel panorama del podcasting attuale, dove ognuno può millantare qualsiasi cifra gli venga in mente. In altri ambiti, invece, la trasparenza è la norma. Pensiamo agli indicatori dei follower sui social media o a quelli degli iscritti ai canali YouTube.
Dubito che la proposta di Terra diventerà realtà, almeno non nel breve tempo.
Ma al tempo stesso credo che sia il caso di rifletterci.
Ha poco senso parlare di successo nei podcast senza ragionare sulla mancanza di trasparenza di questo settore.
Le notizie della settimana
Oltre 260 scienziati e medici hanno chiesto a Spotify di prendere provvedimenti rispetto alle (ennesime) affermazioni false contenute nel podcast di Joe Rogan (per approfondire ascoltate il prossimo episodio di Parliamo di podcast).
Spotify ha chiuso Studio 4 o Spotify Studios, il suo primo studio di produzione, e congedato diversi membri del team.
(A proposito di Spotify: l’azienda è riuscita a bloccare una richiesta di registrazione del proprio marchio da parte di Potify, piattaforma per vendere prodotti a base di marijuana).
È nata negli Usa la Pro-Democracy Podcast Coalition, «uno sforzo coordinato tra alcuni dei migliori podcast e conduttori del Paese che hanno a cuore la democrazia americana e vogliono usare le proprie piattaforme per contribuire a proteggerla».
Hypercast è una nuova podcast services company italiana specializzata in branded podcast. Il ceo è Salvatore Tomasello, manager con una lunga esperienza nell’advertising, mentre il direttore creativo è Raffaele Costantino, dj e conduttore radiofonico di Rai Radio 2. Dietro al progetto c’è un gruppo di investitori guidato dal venture builder Andrea Febbraio.
HeartMedia ha annunciato i propri piani per iniziare a essere presente nel web3 e nel metaverso (qui Wired spiega cos’è il web3, mentre qui Il Post spiega cos’è il metaverso).
Pare che WhatsApp si appresti a lanciare sia per Android sia per iOS un player per riprodurre le note vocali all’esterno delle chat e con l’app in background.
Dati e ricerche
Audible Compass 2021, studio rappresentativo della cultura dell'ascolto in Spagna, Germania, Italia, Francia e Regno Unito, rileva che il Paese che ascolta di più è la Spagna, dove il 55% degli intervistati ha detto di aver ascoltato contenuti audio nell’ultimo anno. Subito dopo c’è l’Italia (46%), seguita da Regno Unito (35%), Germania (42%) e Francia (37%).
Su Audible Italia i narratori di audiolibri più ascoltati sono stati Ninni Bruschetta e Valentina Mari, mentre come autori hanno prevalso Agatha Christie e Barbascura X. I generi che vanno per la maggiore risultano letteratura e narrativa, audiolibri per bambini e biografie & memorie. Rispetto alla media europea gli italiani tendono di più ad ascoltare in modalità monotasking (senza fare nient’altro).
Lo studio è stato realizzato dall'istituto di ricerca d'opinione Kantar EMNID nel luglio 2021 intervistando circa 5.000 persone (mille per mercato) dai 18 ai 65 anni.
Uno studio di PQMedia mostra che, a livello globale, nel 2021 l’uso dei media si è ridotto. Fanno eccezione i podcast, gli audiolibri e lo streaming audio.
I numeri di Amazon Music Podcasts: l’azienda ha fatto sapere che la piattaforma ospita oltre 200 mila podcast e ha 55 milioni di clienti.
Il dilemma della radio
Di Mirko Lagonegro, ceo e cofondatore di Digital MDE
Come sta la radio italiana?
L’occasione per fare il punto è data dalla recente pubblicazione dei dati d’ascolto 2021, che trovate ben riassunti in un articolo di Prima Comunicazione corredato dalle immancabili reazioni di tutti gli editori. Reazioni che, diciamocelo, assomigliano sempre più alle dichiarazione dei leader politici dopo una tornata elettorale: hanno vinto tutti.
Ci sta, per carità, non dimentichiamo che stiamo parlando di imprese che “debbono” rassicurare gli azionisti, aspetto prioritario per quelle quotate in Borsa e per il broadcaster pubblico. E, soprattutto, devono confermare il loro valore presso gli inserzionisti pubblicitari (ma v’assicuro che, in privato, le riflessioni critiche non mancano, ché i miei ex-colleghi sanno perfettamente come leggere la situazione).
Va però detto che se non si è del mestiere sapere qual è la tabella da prendere in considerazione per capire quali sono le radio “davvero” più ascoltate può non essere immediato, ragion per cui è bene partire da una sintesi del funzionamento di questa indagine.
Si basa su un sondaggio telefonico composto da 120 mila telefonate effettuate nel corso di un anno, ancora una delle metodologie tra le più diffuse nel mondo e corretta dal punto di vista scientifico, oltreché essere condotta da società estremamente competenti e serie (con buona pace di coloro i quali pensano siano numeri tirati coi dadi o, peggio, il risultato di chissà quali indicibili patti tra poteri forti).
Certo, nell’era digitale in cui “tutto” è tracciabile e misurabile, una stima statistica può apparire desueta, tant’è che negli ultimi anni s’è ragionato molto, e ancora si ragiona, su come sia possibile innovare la metodologia della ricerca, ma la cosa è tutt’altro che semplice per ragioni “pratiche”.
L’idea di pesare le stazioni radio mediante il loro ascolto “passivo” impiegando dispositivi ad-hoc, i cosiddetti “meter”, o in alternativa applicazioni da installare sugli smartphone o gli smartwatch di un campione rappresentativo degli italiani è molto suggestiva. Ma, tra gli altri, ci si esporrebbe al rischio di misurare anche contenuti che una persona non sta in realtà seguendo, come potrebbe capitare entrando in un bar dove in sottofondo sono sintonizzati su radio vattelapesca che uno non ascolterebbe mai.
Anche l’idea di basare le rilevazioni sulle sole fruizioni digitali ha delle controindicazioni: se da un lato sarebbero, queste sì, assolutamente precise e basate sull’ascolto effettivo, dall’altro, a causa di una fruizione ancora “limitata” nella quantità non sarebbero ancora rappresentative dei comportamenti di tutti gli ascoltatori, specie pensando a quelli più âgées.
Insomma: venirne a capo in modo bilanciato e, soprattutto, condiviso, non sarà né facile né immediato.
I dati, adesso, partendo da quelli generali.
La prima cosa che ho notato guardandoli è che, tutto sommato, la radio italiana nel suo complesso sta bene: raffrontando i dati complessivi del 2019 con quelli del 2021 (causa Covid il 2020 è stato talmente anomalo che è meglio non considerarlo, oltreché essere stato un anno in cui una parte dell’indagine non è stata effettuata), manca all’appello “solo” un milione di persone, all’incirca il 3% del totale, e la durata d’ascolto è rimasta sostanzialmente la stessa.
Ciò detto, prima di entrare nel dettaglio, un’avvertenza: per capire qual è la radio più ascoltata non dovete però guardare alla tabella del cosiddetto GMI, il “Giorno Medio Ieri”, o a quella dei “7 Giorni”, dato che, per quanto ineccepibile metodologicamente, è indicativo della notorietà del marchio di un’emittente piuttosto che del suo effettivo consumo.
Il “reale” ascolto di una data emittente, non a caso quello su cui si basa la compravendita di spazi pubblicitari, è fornito infatti dal “quarto d’ora medio”, in inglese AQH (Average Quarter Hour), cioè il numero medio di persone all’ascolto di una stazione in un quarto d’ora, dato che è riconducibile a una sola emittente, e quindi non duplicato.
Riportandolo in share, cioè in dato percentuale, come a dire “dato 100 il totale degli ascoltatori della radio, quanti stanno seguendo radio X?”, abbiamo questa tabella, corredata di variazione percentuale rispetto all’indagine 2019:
Questa la situazione ad oggi. Ma credo sarebbe un errore limitarsi alla sola misura delle proprie prestazioni senza cercare di capire come il sistema radiofonico potrebbe – dovrà - mutare nei prossimi anni. Ad esempio, vogliamo scommettere che, non appena nelle prossime settimane saranno disponibili i dati dettagliati, analizzando i comportamenti d’ascolto delle classi d’età più giovani la riduzione risulterà significativa, a indicare che il mezzo sta già perdendo appeal su quelle generazioni?
Con franchezza: ho il sospetto che, più che un problema di efficacia in sé, la radio abbia un problema d’immagine, come se la sua rilevanza per precise tipologie di pubblico, quello più giovane e “pregiato”, stia riducendosi sempre più. Alcuni operatori si sono mossi con decisione per contrastare questo rischio, come testimoniano l’attivazione di Rai Play Sound, una Radio24 che continua a perfezionare la propria offerta di contenuti in digital audio e l’imminente lancio di One Podcast del Gruppo Gedi (Andrea e io ne scrivemmo quasi un anno fa).
Quello che mi perplime moltissimo, però, è che queste sono le azioni di gruppi editoriali grandi e strutturati, di cui la radio è, per quanto importantissimo, “solo” un pezzo di un sistema di comunicazione molto più articolato: e gli altri, i cosiddetti editori puri, a partire da quelli locali?
Eppure dovrebbe essere ormai noto che radio e digital audio sono complementari per fruizione, target, funzione e budget/modello di business. Dovremmo assistere a un’esplosione di progetti, strutturazione di nuove aree di attività, corsi di formazione... E invece, al di là di qualche annuncio tattico, vedo ben poco.
Me ne dispiaccio davvero, e l’unica spiegazione che riesco a darmi è questa: temo che tanti editori si trovino nel bel mezzo dell’Innovator’s Dilemma, la situazione che il grande economista ed intellettuale americano Clayton Christensen espresse nel suo libro del 1997, definita come la teoria sul management d’impresa più rilevante dell'inizio del XXI secolo. La potremmo riassumere brutalmente così: «Fare la cosa giusta è la cosa sbagliata».
Molto spesso, il motivo delle crisi delle aziende non è dovuto al fatto che i dirigenti prendono decisioni sbagliate. Il problema invece è che le aziende, assorbite dalla gestione del quotidiano, non hanno tempo, risorse e, soprattutto, la forma mentis necessaria a contrastare l’inerzia generata dal loro stesso successo. Così, finiscono per prendere lo stesso tipo di decisioni che le hanno portate ai vertici, trascurando le opportunità offerte dai rapidi e continui cambiamenti che caratterizzano la nostra epoca. Business as usual, a farla semplice. Sono certi che il pubblico già acquisito continuerà a comprare e che si continuerà ad usare il “tradizionale” modello di business, nella convinzione che la priorità sia proteggere il pubblico esistente.
Secondo uno che di innovazione qualcosa ne sapeva, Steve Jobs, questo è un atteggiamento fatale. Tant’è che nella sua biografia sosteneva che era essenziale innovarsi sempre, mettere in discussione anche i propri successi. «Cannibalizzarsi», diceva, come nel caso dell’Ipad sovrapposto tanto all’Iphone come al Mac.
«Perché - chiosava il fondatore di Apple - se non lo fai tu, lo farà qualcun altro».
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